L'ultimo giorno felice di Oscar Wilde a Capri
- di Giuseppe Aprea
La spiaggia di Berneval è il dono d'amore della grande falesia
all'oceano, suo sposo: con la forza lui la possiede tutte le notti, fin
dai tempi dei tempi. Quelli di lì dicono che è la più bianca e soffice
fra tutte quelle di Normandia. Forse è davvero così. Di sicuro, in quel
giorno di maggio del 1897 in cui un misterioso forestiero ci mise piede,
era molto più profonda di quanto non sia adesso. Perché l'onda da
allora non ha mai smesso di portarsene via con sé un granello di sabbia
dopo l'altro.
Di quell'uomo, ch'era alto e robusto come un antico vichingo, in
principio si seppe soltanto ch'era uscito da pochi giorni dal carcere di
Reading, che è sull'altra sponda dell'Atlantico, più giù di Londra.
E che una volta libero aveva attraversato la Manica su di una barcaccia
senza nome fermandosi a Dieppe, in terra francese, ma solo per pochi
giorni: non appena si era sparsa la voce della sua presenza, la comunità
inglese di lì aveva cominciato a mugugnare e lui aveva deciso ch'era
meglio andar via....
Perciò era venuto a Berneval: sperava che lì nessuno conoscesse la
sua storia. Ed era per questo motivo che l'uomo, che aveva il volto
scuro come una nuvola di tempesta, non aveva dato il suo vero nome,
ch'era Oscar Wilde, al padrone della locanda accanto alla spiaggia, dove
aveva preso alloggio per pochi soldi. Aveva detto di chiamarsi
"Sebastian Melmoth", nome che puzzava di posticcio da lontano un miglio -
lui lo sapeva bene - ma esprimeva esattamente il suo stato d'animo di
quel momento.
Sebastiano era il martire cristiano penetrato dalle frecce lungo tutto
il corpo, Melmoth il cavaliere errante di un'antica novella irlandese.
Tutto ciò che quell'infelice cavaliere cercava, nella quiete marina
di quel paesello di Normandia, era soltanto scomparire. Svanire nel
nulla. Trasformarsi in aria e disperdersi nell'odore di salsedine che
profumava la falesia e le case bianche dei pescatori. E in tal modo
essere dimenticato e dimenticare. Così, consapevole che la seconda parte
del suo desiderio era l'unica a dipendere (anche) da lui, Oscar Wilde
aveva imboccato quella strada faticosa che porta all'oblìo attraverso il
ricordo e la sofferenza, e cominciato a scrivere i meravigliosi versi
de "The Ballad of Reading gaol", la Ballata del carcere di Reading. Non
vidi mai uomini tristi guardare / Con occhio altrettanto assorto /
Quella piccola tenda di azzurro / Che noi prigionieri chiamavamo cielo, /
E ogni lieta nuvola che passava / In tanta strana libertà. Due anni
trascorsi a desiderare il cielo era stato il prezzo che l'Inghilterra
gli aveva chiesto per espiare ciò che doveva essere espiato. Poiché,
come egli stesso aveva scritto, "he who lives more lives than one / more
deaths than one must die", colui che vive più di una vita /deve morire
anche più d'una morte. Ora che aveva pagato, però, si aspettava in
premio l'oblìo del mondo e degli uomini. E l'amore di Bosie,
naturalmente.
Bosie, come gli amici chiamavano il giovane lord Alfred Douglas, era
il suo amante fin dal principio degli anni Novanta, in cui Oscar Wilde
era forse l'uomo più popolare del regno dopo la regina Vittoria: senza
alcun dubbio tra i più ammirati ed invidiati. Era nato a Dublino nel
1854 e già giovanissimo, appena uscito con il massimo dei voti dal
prestigioso Magdalen College di Oxford, si era rivelato al grande
pubblico con una raccolta di poesie. Di lui colpivano già allora la
verve irrefrenabile, l'amore per la bellezza e la cultura profonda: doti
che ne facevano un brillantissimo, impagabile conversatore o, al
contrario, un oppositore vivace e mai domo, di quelli cui basta uno
spiraglio per infilarci dentro una lingua sferzante e impietosa. La
statura, imponente, ma ancor più i capelli, che portava lunghi, e
soprattutto gli abiti, di un'eleganza sempre inusuale e spesso invero
del tutto fuori dall'ordinario, contribuivano inoltre a rendere la sua
conoscenza un'esperienza assolutamente unica e indimenticabile per chi
avesse la ventura di farla.
L'enorme successo e l'altrettanto grande scandalo suscitato dalla sua
novella The picture of Dorian Gray la storia di un giovane cui viene
concesso per magia di vivere tra vizi e dissolutezze, mentre i guasti
fisici che ne derivano vengono registrati soltanto da un suo ritratto,
in cui appunto il volto va coprendosi di terribili rughe giorno per
giorno - avevano fatto di Wilde un autore ed un uomo famoso in tutta
l'Europa. E dell'anno di quella improvvisa e prorompente notorietà, il
1891, il punto d'inizio tanto della sua fortuna di artista, quanto della
sua tragedia di uomo.
Quando aveva conosciuto il giovane Alfred Douglas, innamorandosene
perdutamente, Wilde era sposato con Constance Lloyd, la figlia di un
avvocato irlandese che gli aveva dato due figli maschi, di nome Cyril e
Vyvyan. Aveva già avuto, in passato, qualche avventura omosessuale, ma
con Bosie, precoce e vivo talento di poeta uraniano, perduto però tra i
marosi di un'anima ribelle e un po' violenta, si trattava di qualcosa di
profondamente diverso. Soprattutto per lui, Oscar. Una passione
travolgente, cui nessun essere umano avrebbe potuto opporre resistenza.
Un amore tanto impetuoso da trascinare via con sé qualsiasi altro
sentimento, da disintegrare ogni forma di pudore. Così dannatamente
pieno di verità e così doloroso, da sembrare un amore eterno fin dal
primo attimo.
Quando l'unione tra i due uomini era diventata cosa pubblica, la
reazione che si era scatenata tutt'intorno era stata feroce. Il padre di
Alfred, Lord John Sholto Douglas nono marchese di Queensberry, che già
aveva in odio quel suo figlio "degenere", aveva immediatamente associato
nello stesso sentimento anche il suo maturo amante e progettato di
distruggerlo alimentando lo scandalo, anziché tentare di arginarlo.
Così, non riuscendo ad incontrarsi faccia a faccia con Wilde, aveva
progettato di insultarlo ed umiliarlo in pubblico la sera della prima
della sua commedia "L'importanza di chiamarsi Ernesto", al St. James's
Theatre di Londra. Ma non essendo riuscito neanche in questo proposito,
aveva infine lasciato per lui, al club di cui entrambi erano soci, il
ricercatissimo Albermarle, un biglietto personale. C'era scritto "A
Oscar Wilde, che posa da sondomita ...": proprio così, con una enne
clandestina e alquanto ridicola...!
Sarebbe bastato ignorarlo, quel biglietto ch'era uno schiaffo di
sfida. Sarebbe bastato ridurlo in mille pezzi là per là, davanti a
tutti. E farci su una risata, affogando il tutto sotto una cascata
d'ironia. O quantomeno fingere indifferenza e prendere tempo, e con il
tempo poi dimenticarlo, l'affronto di quel genitore bigotto e un po'
patetico. E cancellare insieme a lui tutto quel mondo cinico e
moralista che si agitava intorno. In fondo da dove comincia la vera
trasgressio ne, se non dal sesso e dalle sue regole da sovvertire? E
chi, se non lui, Oscar Wilde - l'esteta, il dandy, l'artista,
l'anticonformista per investitura divina - poteva sperare di riuscirci?
Bosie decise invece che quello era il momento di chiudere i vecchi
conti con un genitore che non aveva mai amato. Si convinse che citarlo
in giudizio per calunnia e fargli rimangiare in pubblico quella sua
arrogante intolleranza sarebbe stata la giusta vendetta. E alla fine
convinse anche Wilde, che non seppe dirgli di no, spingendo il suo
candore fino ad immaginare che l'avvocato del marchese di Queensberry,
che aveva appreso essere Edward Carson, vecchio compagno di studi al
college a Dublino, avrebbe sicuramente avuto una condotta amichevole nei
suoi confronti ... Il processo era cominciato all'Old Bailey il 9 di
marzo del 1895 e si può dire che fin dall'inizio si era intuito che le
cose, per il giovane Douglas e per Wilde, si sarebbero messe male. Era
apparso chiaro non appena si era cominciata a dispiegare la strategia di
Carson (che naturalmente nulla aveva di amichevole) che passava
attraverso tutta una serie di domande, sempre più allusive, poste al
commediografo seduto sul banco dei testimoni.
"Ritenete voi possibile, signor Wilde, che qualcuno possa ritenere
perverso il vostro romanzo 'Il ritratto di Dorian Gray'?" - aveva
chiesto subdolamente Carson subito dopo le prime domande di rito.
"Forse - aveva risposto l'interrogato, tra l'ingenuo e lo sprezzante -
ma solo dai bruti e dagli ignoranti. Le opinioni dei filistei, mio caro,
sono di una stupidità incommensurabile...!"
"E come sono da interpretare, secondo voi, frasi come 'le tue labbra di
petalo di rosa rossa' o 'la tua flessuosa anima aurata', che leggiamo
nelle vostre lettere, che tutte cominciano con le parole: 'Bosie, mio
caro e meraviglioso ragazzo'?", aveva insistito l'avvocato, incalzando
Wilde.
"Volete dirmi, di grazia, se questo è, a parer vostro, il genere di lettera che un uomo scrive ad un altro uomo ... signore?"
Era stato a quel punto, prima ancora che cominciasse la sfilata dei
testimoni - prostituti frequentati in quegli anni da Oscar e Bosie e
rintracciati dagli investigatori, ingaggiati a forza di sterline dal
marchese - che il difensore di Wilde aveva consigliato al suo cliente di
non presentarsi alla seconda udienza.
Così era stato. Ma in tal modo era riuscito a contenere l'umiliazione,
non certo a cambiare il verdetto: non solo lord Queensberry, alla fine,
era stato proclamato innocente dal reato di calunnia, ma il giudice
supremo Collins aveva sentenziato pure che egli aveva avuto ragione a
sollevare la questione. Proprio perché essa esulava dalla sfera privata e
andava a riguardare il bene pubblico. I fatti richiedevano quindi un
approfondimento ed un nuovo processo, aveva deciso. In esso Wilde,
questa volta da imputato, avrebbe dovuto difendersi dall'accusa di
essersi macchiato di gross indecency, di grave immoralità. In una
parola: di omosessualità.
Era la fine. Malgrado gli amici più cari e la stessa moglie Constance
lo implorassero di fuggire, di raggiungere Dover e imbarcarsi per la
Francia, Oscar Wilde decise di affrontare anche questo giudizio. Il cui
esito era già era scritto sulle acque grigie del Tamigi.
"What is the 'Love that dare not speak its name'?" gli chiese l'avvocato
Gill, pubblico ministero di quel secondo processo, in una fase del
controinterrogatorio, riferendosi al verso di una poesia che Bosie aveva
scritto dedicandola al suo innamorato. In esso l'amore omosessuale era
appunto "l'Amore che non osa pronunciare il proprio nome".
"L'amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande
affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane - rispose Wilde
con tono solenne e una punta di orgoglio, tra i risolini sarcastici e
gli applausi di un pubblico diviso. - E' lo stesso che esisteva tra
Davide e Gionata, e che Platone mise alla base della sua filosofia. Lo
stesso che si trova nei sonetti di Shakespeare o nelle opere di
Michelangelo...".
L'austero giudice Wills non conosceva i Dialoghi di Platone sull'Amore e
l'Amicizia, o forse non ne ricordava più il significato: chiuse perciò
il processo senza dubbi residui ed alcuna esitazione, condannando
l'imputato a due anni di carcere duro. E a scanso di equivoci, mentre
l'aula si riempiva degli schiamazzi degli spettatori, ora uniti nel
grido "vergogna! vergogna!...", aggiunse che a suo parere la pena era
inadeguata alle colpe odiose dell'imputato. Fu subito dopo queste sue
parole che, vinto dalla disperazione, Oscar Wilde perse i sensi e fu
portato via a braccia.
Quando ebbe scontata la condanna, e uscì infine dalle mura Reading,
Wilde era un altro uomo. Grigio dentro, tremolante nell'incedere e nei
gesti, con lo sguardo perso ed il volto pallido di un uomo che riemerge
dalle macerie che l'hanno inghiottito durante un terremoto. Non aveva
più nulla: né denaro, né più una famiglia, dal momento che sua moglie
Constance aveva chiesto ed ottenuto perfino di mutare il suo cognome, e
quello dei suoi figli, in Holland. Un solo desiderio gli era
sopravvissuto nell'animo: rivedere Bosie che in tutti quei giorni e in
tutte quelle notti disperatamente aveva invocato, senza che mai lui si
fosse degnato di farsi vivo. E fuggire con lui non importa dove ... in
qualunque luogo gli uomini gli avessero permesso di vivere. E così, dopo
il periodo a Berneval e qualche mese trascorso a Parigi all'hotel
Alsace di Rue de Beaux-Arts, Wilde e Douglas vennero in Italia, e a
Napoli.
A metà ottobre 1897 giunsero a Capri per una gita che doveva durare tre
giorni. L'idea - Oscar l'aveva anticipata al suo amico Reginald Turner,
in una lettera - era quella di rendere omaggio a Tiberio deponendo un
fiore sulla sua tomba, o almeno dedicandogli un pensiero: in fondo era a
lui che si doveva quell'aura di libertà che soffiava sulle colline
verdeggianti di quella bella isola!
Bosie sembrava particolarmente felice, il giorno che arrivarono: lui
conosceva bene Capri, perché ci aveva trascorso due mesi dell'estate
precedente in compagnia di Robert Ross, il suo amico Robbie, il quale
tutti nel giro ne erano informati era stato il primo uomo con cui Wilde
avesse avuto una relazione, anni prima. Ad ogni modo, Douglas e Ross
avevano trovato alloggio al primo piano di Villa Federico, una delle
poche case che allora costeggiava la via Pastena. Insieme avevano
imparato ad amare l'isola pian piano, percorrendone le stradine,
conoscendone gli abitanti e frequentandone i residenti stranieri, tra i
quali molti erano quelli di origine anglosassone. Tra gli inglesi, i
decani erano stati Henry Wreford, che per anni aveva raccontato ai
lettori del Times delle imprese di Garibaldi, e George Sidney Clark, un
medico capitato lì da Liverpool prima della metà dell'Ottocento. A
quest'ultimo, che aveva avuto la straordinaria intuizione di un
sanatorio, il Qui-si-sana, diventato pian piano uno degli alberghi più
famosi del mondo, l'isola per gratitudine
aveva regalato da subito anche una bella sposa di nome Anna.
Nel tempo di cui parliamo, per l'appunto, il Quisisana era già un
"Grandhôtel". Il suo proprietario, che era un self- made- man locale,
tale Federico Serena, lo proclamava con fierezza nella scritta fatta
imprimere sulla porta di cristallo che si apriva sulla hall. Il servizio
era inappuntabile, la cucina internazionale. La sala da pranzo
dell'albergo racchiudeva perciò uno straordinario caleidoscopio di
profumi e di emozioni, in un inseguirsi vorticoso di comande e di
inchini. Tra i commensali, seduti alle lunghe tavole, tutto era lusso e
vanità.
Qua e là luccichìo di perle, scintillìo di sete, tintinnìo di calici preziosi.
Quando la sala era gremita, era del tutto impossibile mettere a fuoco
anche uno soltanto di questi particolari; quando era vuota, invece, il
soffitto arabescato attraeva gli occhi del visitatore attento. Subito
dopo, però, ogni sguardo veniva inesorabilmente rapito dall'elegante
arcata che tagliava in due l'ambiente: su di essa l'incontro solenne fra
due cortei di grifi, creature per metà aquile col becco adunco e per
metà leoni con le zampe artigliate.
Forse fu proprio quel frammento di mito la prima cosa che Oscar Wilde
notò, entrando con Alfred Douglas nella sala da pranzo del Quisisana.
Forse fu anche l'ultimo raggio di sole che lo scaldò, prima che le
nuvole si addensassero sul suo capo e la tempesta si materializzasse
improvvisa nella faccia scura per l'imbarazzo di Federico Serena, che
veniva a chieder loro gentilmente di andar via. Molti dei commensali di
quel giorno erano inglesi, disse, accarezzandosi nervoso i baffi ben
curati. Clienti abituali, gente importante: principi, banchieri e dame
d'alto rango che venivano in villeggiatura già da anni in albergo. Era
accaduto che alcuni di essi - "un pò bigotti, ne convengo...", aveva
aggiunto quasi a scusarsi - avevano riconosciuto i nuovi arrivati e si
erano lamentati della loro presenza.
"Sapete, la vostra notorietà è tale che ... - il padrone di casa parlava
abbassando gli occhi, sempre più incespicando nelle parole - il proce
... ehm.. insomma, la cosa... ha fatto un tale scalpore che ...". "Lor
signori comprenderanno di certo la delicatezza della mia posizione...!",
aveva infine tagliato corto Serena, accomiatandosi dai suoi ospiti con
un inchino ed un rapido passo all'indietro.
Non è possibile esprimere con semplici parole il senso di desolazione
che questa uscita di scena lasciò dietro di sé. Né il gelo, né il
silenzio lacerante che accompagnò la fuga di Oscar e Bosie dalla sala da
pranzo del Quisisana. Non è però difficile immaginare quali fossero i
loro pensieri ed i loro discorsi mentre risalivano, senza una meta
precisa, la via Hohenzollern ed i passi li conducessero fatalmente nella
piccola piazza del paese.
Fu forse il fato, pentito di tanta crudeltà, a sospingere verso
quello stesso luogo, in quello stesso tempo, uno degli spiriti più
liberi che soggiornasse allora nell'isola. Era il dottor Axel Munthe, lo
svedese proprietario della villa San Michele, ad Anacapri. Uno dei
medici più apprezzati e più famosi del suo tempo, amico personale e
forse molto di più della regina Vittoria di Svezia, ch'era anch'essa tra
gli ospiti sedotti dall'isola. Munthe conosceva lord Douglas, e
conosceva di fama anche sir William Wilde, il padre di Oscar, chirurgo
personale della regina Vittoria d'Inghilterra. Incontrare ed invitare a
pranzo i due viaggiatori inglesi nella sua meravigliosa casa affacciata
sul golfo di Napoli fu una cosa sola.
"Ci hanno negato anche il pane ...", confidò in francese Wilde al suo
generoso ospite, rivelandogli subito della bruciante umiliazione subita e
di quella malinconia che non voleva saperne di lasciarlo. Più tardi, a
tavola a San Michele di Anacapri, poche delle poche parole di quello
svedese, che nascondeva gli occhi dietro spesse lenti oscurate, gli
furono sufficienti per intuirne lo spessore. Ma soprattutto il
commediografo avvertì intorno a lui - misteriosa, potente, purificante -
l'energia che emanavano le vestigia del passato che illeggiadrivano
quel luogo già incredibilmente suggestivo, sistemate qua e là.
Quell'incontro era destinato a rimanere uno dei pochissimi momenti di
serenità nei poco più di mille giorni che costituirono la vita di Oscar
Wilde dopo la fine della sua prigionia nel carcere di Reading.
"Bosie ed io abbiamo fatto colazione con il dottor Munthe, che ha una
villa incantevole, ed è un grande conoscitore delle antichità greche
scrisse a Robert Ross da villa Giudice a Posillipo - Lui ha una
splendida personalità". E ancora, quello stesso martedì 19 ottobre 1897:
"Bosie è a Capri. Io sono rientrato ieri, perché soffiava lo scirocco e
pioveva. Lui è a cena da mrs. Snow".
Mrs Snow - sia detto per inciso - era una ricca americana che abitava
all'ultimo piano della villa Ferraro, appunto in via Hohenzollern. La
sua però è un'altra storia e nulla ha a che vedere con quella di Wilde.
Che si avvia tragicamente al termine. Oscar Wilde morì a Parigi,
povero e infelice, il 30 novembre del 1900, in una stanzetta di un
albergo orribile dal nome squillante e fascinoso: l'Hotel des
Beaux-Arts.
Aveva quarantasei anni.
Da allora riposa sotto i cipressi del cimitero di Père Lachaise, in
compagnia di Proust, Molière e di tanti altri di cui oggi il mondo
avrebbe un disperato bisogno. Chi voglia visitare il Père Lachaise
accetti il consiglio di uscirne, alla fine del percorso, attraverso il
cancello che si apre su Vue de Charente. C'è lì subito un primo,
vicinissimo bistrot che qualcuno ha avuto l'eccellente idea di chiamare
"La Renaissance", la rinascita. Già la speranza fa bene all'anima, ma
dicono che si mangi anche bene....